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    After several years of what has been called “the climate impasse” reaching an agreement (Cop21 – Paris, 30 november-12 december 2015) is a very positive signal. While we are witnessing a world convulsed by conflicts, and where there is no real progress towards the global governance judged by many to be necessary, we must recognise that a unanimous agreement by 195 countries, on such a sensitive topic as the climate impacts, it is indeed a very positive step. We know already what it means when agreement is lacking: no capacity to develop effective policies, inability to generate the necessary funds, more chaos, uncertainty, and in the end, the imposition by the most powerful. This is never to the benefit of the most vulnerable.

    A deal like this, with all its imperfections, reminds us of the moral superiority of consensus, and the importance of the processes that generate it.

    The aspirative limit to global warming is below 1.5°C, and certainly below 2°C. This is basically what the agreement says, that we are already at the limit of what is tolerable. When setting 2°C, and clearly pointing the desirable threshold of 1.5°C the agreement is acknowledging that the only possible path of security for the planet is the total reduction of the emissions of greenhouse gases.

    And this means that we should move towards a world where fossil fuels can no longer be part of our energy mix.

    We may or many not succeed, but with more patience than we currently think we can summon, all is possible. But now at least we know where the limits are.

    Common but differentiated responsibilities

    Political recognition of the different responsibilities cannot any longer be understood as an exemption from such responsibilities. And we are talking about responsibilities at many different levels: national, regional but also local. The Paris agreement allows a double, and even a triple speed, both in proposing the objectives and to monitor them. It will not be easy: with oil prices below the $50,00,[US] much political courage will be needed to promote renewable energies in the required amount, and this is something that oil-producing countries know very well.

    It happens, in a similar way, with those countries that spend millions subsidising an inefficient production of coal.

    The energy transition will need very courageous governments, and yes, although different everybody has its own responsibility.

    An agreement of this kind is obviously very fragile, and not only because of internal failures (to establish very low targets, the lack of homogeneous monitoring mechanisms or simply if any state do not meet the objectives) but also other international agreements (on trade, biodiversity, patents) can limit, or reduce, the ambition of this agreement and even make it irrelevant. This is a piece of the global governance that needs to be inserted into a coherent framework of the international relationships.

    Only this coherence will allow the parties to implement the agreement with the required ambition.

    Transparency and monitoring

    It is not enough to set up a fund. It is not even enough to fulfil the financial engagements. There must be a system to ensure transparency in the use of these funds. Moreover, it is essential that these funds positively impact the life of the communities, especially of the most vulnerable. We cannot permit these resources to be spent on huge infrastructures, that only profit the western constructors companies; or even worse, to keep in power cruel and dictatorial rulers.

    The Green Fund cannot be a mechanism to perpetuate situations of poverty, it has to be a vector of social and environmental transformation. To follow all these processes we need a strong and cohesive civil society that can make the necessary monitoring.

    At the end of these two weeks the question that remains in the air is that whether all this was necessary. And by “all” we mean a costly and stressful conference that gathers thousands of people, and that sometimes looks more like an spectacle than a political event.

    The question is that if we could develop a more harmonious, dynamic and efficient mechanism where problems could be solved without going through the drama and the intensity of these days in Paris. Maybe this catharsis is needed, this feeling of being close to the abyss is what forces us to react and to change the direction. But this this type purification, a leitmotif of Greek theatre, will only be successful if it makes a difference in the lives of those who already live in the abyss of poverty, exclusion, and vulnerability.

    (source: Europeinfos #189)

    Dopo tanti anni del cosiddetto “impasse clima”, raggiungere un accordo (Cop21 – Parigi, 30 novembre-12 dicembre 2015) è un segnale molto positivo. Mentre stiamo assistendo a un mondo sconvolto da conflitti, dove manca un reale progresso verso la governance globale considerata da molti come necessaria, dobbiamo riconoscere che un accordo unanime di 195 Paesi su un tema così delicato come gli impatti climatici è davvero un passo molto positivo.

    Sappiamo già che cosa significa quando manca un accordo: nessuna capacità di sviluppare politiche efficaci, incapacità di reperire i fondi necessari, più caos, incertezza, e, alla fine, l’imposizione da parte del più potente. Tutto ciò non porta mai vantaggi ai più vulnerabili. Un accordo di questo tipo, con tutte le sue imperfezioni, ci ricorda la superiorità morale del consenso e l’importanza dei processi che lo generano.

    Il limite auspicato per il riscaldamento globale è sotto i 1,5°C e certamente sotto i 2°C . Questo è fondamentalmente ciò che dice l’accordo: che siamo già al limite del tollerabile. Ponendo i 2°C, e indicando chiaramente la soglia desiderabile di 1,5°C, l’accordo riconosce che l’unica strada possibile per la sicurezza del pianeta è la riduzione totale delle emissioni di gas serra. E questo significa che dovremo muoverci verso un mondo in cui i combustibili fossili non possono più far parte del nostro mix energetico.

    Possiamo o non possiamo riuscirci, ma con più pazienza di quanta pensiamo di poter avere tutto è possibile. Perlomeno ora sappiamo dove sono i limiti.

    Responsabilità comuni ma differenziate

    Il riconoscimento politico delle diverse responsabilità non può più essere inteso come un’esenzione da tali responsabilità. E stiamo parlando di responsabilità a vari livelli: nazionale, regionale ma anche locale.

    L’accordo di Parigi permette una doppia e anche una tripla velocità, sia nel proporre gli obiettivi, sia nel monitorarli. Non sarà facile: con i prezzi del petrolio al di sotto di 50,00 $ [US], sarà necessario molto coraggio politico per promuovere energie rinnovabili nella quantità necessaria, e questo è qualcosa che i Paesi produttori di petrolio capiscono molto bene. Analoga è la situazione con i Paesi che spendono milioni per sovvenzionare una produzione inefficiente di carbone. La transizione energetica avrà bisogno di governi molto coraggiosi, e benché in modo diverso, ognuno ha la propria responsabilità.

    Un accordo di questo tipo è ovviamente molto fragile non solo a causa di errori interni (nel definire obiettivi molto bassi, per la mancanza di meccanismi omogenei di monitoraggio o semplicemente nel caso in cui uno Stato non soddisfi gli obiettivi); anche altri accordi internazionali (in materia di commercio, biodiversità, brevetti) possono limitare o ridurre l’ambizione di questo accordo e persino renderlo irrilevante. Questo è un pezzo di governance globale che deve essere inserito in un quadro coerente di relazioni internazionali.

    Solo questa coerenza permetterà alle parti di attuare l’accordo con l’ambizione necessaria.

    Trasparenza e monitoraggio

    Non è sufficiente istituire un fondo. Non basta nemmeno soddisfare gli impegni finanziari. Ci deve essere un sistema che garantisca la trasparenza nell’utilizzo di questi fondi. Inoltre, è essenziale che questi fondi abbiano un impatto positivo sulla vita delle comunità, in particolare delle più vulnerabili. Non possiamo permettere che queste risorse siano spese in grandi infrastrutture, da cui traggono profitto solo le compagnie costruttrici occidentali; o peggio ancora, per mantenere al potere governanti crudeli e dittatoriali. Il Fondo verde non può essere un meccanismo per perpetuare situazioni di povertà; deve essere un vettore di trasformazione sociale e ambientale. Per seguire tutti questi processi abbiamo bisogno di una società civile forte e coesa, che faccia il necessario monitoraggio.

    Al termine di queste due settimane la domanda sospesa è se tutto questo fosse necessario. E per “tutto” s’intende una conferenza costosa e stressante che riunisce migliaia di persone e che a volte assomiglia più a uno spettacolo che a un evento politico. La domanda è se non si potesse sviluppare un meccanismo più armonioso, dinamico ed efficiente in cui risolvere i problemi senza passare attraverso la rappresentazione e l’intensità di questi giorni a Parigi. Forse è necessaria questa catarsi: la sensazione di essere vicini al baratro è ciò che ci costringe a reagire e cambiare direzione. Ma questo tipo di purificazione, leitmotiv del teatro greco, sarà un successo solo se farà la differenza nelle vite di coloro che già vivono nel baratro della povertà, dell’esclusione e della vulnerabilità.

    (fonte: Europeinfos #189)


    Cop21, la question qui reste en suspens

    Après plusieurs années de ce que l’on a appelé “l’impasse climatique”, la conclusion d’un accord (Cop21- Paris, le 12 décembre 2015) est un signal très positif. Alors que nous avons sous les yeux le spectacle d’un monde bouleversé par les conflits et que nous n’observons aucun progrès réel en direction d’une gouvernance mondiale que beaucoup jugent nécessaire, nous devons reconnaître qu’un accord conclu à l’unanimité par 195 pays sur un sujet aussi sensible que les impacts climatiques est effectivement une avancée très positive. Nous connaissons déjà ce que veut dire l’absence d’accord : aucun moyen d’élaborer des politiques efficaces, une incapacité à générer les fonds nécessaires, un chaos croissant, de l’incertitude et, en fin de compte, la mainmise des plus puissants. Ce genre de situation n’est jamais à l’avantage des plus vulnérables. Un accord tel que celui-ci, avec toutes ses imperfections, nous rappelle la supériorité morale du consensus et l’importance des processus qui lui donnent naissance.

    La limite à laquelle on aspire en matière de réchauffement climatique se situe au-dessous de 1,5°C et certainement au-dessous de 2°C. C’est ce que dit fondamentalement l’accord, à savoir que nous avons déjà atteint la limite du tolérable. En fixant la limite à 2°C et en indiquant clairement le seuil souhaitable de 1,5°C, l’accord reconnaît que la seule voie de sécurité possible pour la planète est la réduction totale des émissions de gaz à effet de serre. Ceci veut dire qu’il faut se diriger vers un monde où les combustibles fossiles ne feront plus partie de notre bouquet énergétique. Peut-être y arriverons-nous, ou peut-être pas, mais il semble que tout soit possible si nous faisons preuve de plus de patience que ce que nous croyons actuellement possible de rassembler. Au moins, nous savons maintenant où sont les limites.

    Des responsabilités communes mais différenciées

    La reconnaissance politique des différentes responsabilités ne peut plus être entendue comme une exemption de ces responsabilités. Et nous parlons de responsabilités à de nombreux niveaux différents : national, régional mais aussi local. L’accord de Paris est un accord à double et même triple vitesse, que ce soit en ce qui concerne la proposition des objectifs ou en ce qui concerne leur suivi. Ce ne sera pas facile : étant donné que les prix du pétrole sont au-dessous de la barre des 50 dollars, il faudra un grand courage politique pour promouvoir la quantité nécessaire d’énergies renouvelables et c’est là quelque chose que les pays producteurs de pétrole savent bien. C’est aussi le cas, de façon similaire, pour les pays qui dépensent des millions à subventionner la production inefficace de charbon. La transition énergétique nécessitera des gouvernements très courageux et il est certain que chacun aura une responsabilité propre, même si elle diffère de celle d’autrui.

    Un accord de ce type est naturellement très fragile, non seulement en raison des échecs internes (l’établissement d’objectifs très faibles, le manque de mécanismes de suivi homogènes ou simplement l’incapacité d’un Etat à atteindre les objectifs) mais aussi parce que d’autres accords internationaux (en matière de commerce, de biodiversité ou de brevets) peuvent limiter ou réduire l’ambition de cet accord, voire même lui enlever toute pertinence. C’est un élément de gouvernance mondiale qui a besoin d’être intégré dans un cadre cohérent de relations internationales. Seule cette cohérence permettra aux parties de mettre en œuvre l’accord avec l’ambition requise.

    Transparence et suivi

    Il ne suffit pas d’établir un Fonds. Il ne suffit même pas de respecter les engagements financiers. Il doit y avoir un système garantissant la transparence dans l’utilisation des fonds. Il est également essentiel que ces fonds aient un impact positif sur la vie des communautés, en particulier des plus vulnérables. Nous ne pouvons pas permettre que ces ressources servent à établir de vastes infrastructures qui ne profiteraient qu’aux entreprises occidentales du secteur de la construction, ou même pis, qu’elles servent à maintenir au pouvoir des dictateurs cruels. Le Fonds Vert pour le climat ne peut être un mécanisme qui perpétue les situations de pauvreté, il doit être un vecteur de transformation sociale et environnementale. Pour effectuer le suivi de tous ces processus, nous avons besoin d’une société civile forte et soudée, qui puisse se charger du suivi nécessaire.

    A l’issue de ces deux semaines de négociations, la question qui reste en suspens est de savoir si tout ceci était bien nécessaire. Par “tout ceci” nous entendons une conférence coûteuse et stressante réunissant des milliers de personnes et ressemblant parfois davantage à un spectacle qu’à une rencontre politique. Il s’agit de savoir si nous pourrions mettre au point un mécanisme plus harmonieux, dynamique et efficace permettant de résoudre les problèmes sans passer par toute la dramatisation et l’intensité de ces journées de Paris. Cette catharsis était peut-être nécessaire ; le sentiment d’être au bord du gouffre est ce qui nous force à réagir et à changer d’orientation. Mais une purification de ce type, qui est un leitmotiv du théâtre grec, ne sera une réussite que si elle change quelque chose dans la vie de ceux qui se trouvent déjà au bord du gouffre de la pauvreté, de l’exclusion et de la vulnérabilité.

    (source: Europeinfos #189)

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      José Ignacio García

      Director of Jesuit European Social Centre (www.jesc.eu)

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