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    According to Eurostat, a total of 1.3 million persons have applied for international protection in the 28 European Union member states in 2015. Among them is a Somali girl whom JRS met in Italy.

    Yasmin is 19 years old and had to flee her home in Somalia in order to avoid the unwelcome advances of a member of the Al-Shabaab terrorist group. Saying ‘no’ was not an option. She said: “Someone from Al-Shabaab wanted to marry a friend of mine and her father said ‘no’. Both father and daughter were killed.” Fleeing was especially difficult for Yasmin, whose legs had been badly maimed two years earlier, when her home in Mogadishu was caught in crossfire between the army and Al-Shabaab.

    The majority of forced migrants who come to Europe are from war-torn countries like Somalia, Iraq or Afghanistan. Others flee from indiscriminate violence and severe human rights violations in countries like Eritrea or Sudan. Or they have been victims of including severe violations of economic, social and cultural rights like the Roma in Serbia.

    What is the European Union’s response to their tragedies?

    Commission and Member States are making every effort to organize a close cooperation with countries of origin or transit countries. Most prominently it is the Turkish government who is expected to keep away refugees from Europe at all costs. Greece is, for instance, currently considering Turkey as ‘a safe third country’ and attempts to return indiscriminately all migrants including protection-seekers from its borders to Turkey.

    At a first glance the Greek authorities have the right to do so. The EU “Dublin Regulation” allows Member States to design lists of “safe third countries” where people in need of protection should apply for asylum. And the European Commission has explicitly invited Member States to put Turkey on such a list. But on a second glance many doubts about the legality of such a measure arise.

    The cornerstone of the international refugee protection system is the principle of non-refoulement. This principle prohibits the transfer of anyone in any manner whatsoever to a place where they would be at real risk of serious human rights violations. It has been codified in the 1951 Refugee Convention and numerous international human rights instruments. A breach of this principle can occur in a variety of ways, including directly through forcible returns to the country of origin, or through a transfer to a place where the person risks onwards refoulement.

    Can Turkey be considered as ‘safe’ for refugees?

    Amnesty International has recently issued an “Urgent Action” in the case of a young Syrian man: M.K. fled Syria in December 2012 and went to Jordan. In November 2015 he decided to go to Turkey, as he thought his orphaned sisters living in Syria may be able to join him there. He was detained on arrival in Istanbul Airport on 9 November 2015. The Turkish authorities attempted to send him back to Jordan the following day, but M.K. said he wished to seek asylum in Turkey. M.K. was then taken to a room at the airport in which he has remained ever since.

    M.K. is being detained in a space with no natural light and in which artificial lights are permanently on. He is allegedly denied the medical assistance that he is in need of. Being kept confined in such a space for an extended period of time (in this case since 9 November 2015) may amount to cruel, inhuman or degrading treatment.

    Can a state where such severe violations of human rights including the non-refoulement principle really be considered as being ‘safe’ for refugees? Rather not. The European Union and its Member States are in danger of betraying their own core values and norms. There are alternatives to these policies. European leaders need to think about opening up more legal and safe routes for forced migrants. There are concrete proposals on the table; in November 2014, several faith-based organizations issued a joint policy paper on safe and legal paths to protection in Europe. Such measures should be given top priority. Then the European Union would be living up to its own standards and values.

    (source: Europeinfos #192)

    Secondo Eurostat, un totale di 1,3 milioni di persone hanno presentato domanda di protezione internazionale nei 28 Stati membri dell’Unione Europea nel 2015. Tra di loro c’è una ragazza somala che il Servizio per i rifugiati dei gesuiti (Jesuit Refugee Service – Jrs) ha incontrato in Italia.

    Yasmin ha 19 anni e ha dovuto abbandonare la sua casa in Somalia per evitare le avances indesiderate di un membro del gruppo terroristico di Al-Shabaab. Dire ‘no’ non era un’opzione possibile. Ha detto: “Qualcuno da Al-Shabaab voleva sposare una mia amica e suo padre ha detto ‘no’. Sia il padre sia la figlia sono stati uccisi”. Fuggire è stato particolarmente difficile per Yasmin, le cui gambe erano state gravemente ferite due anni prima, quando la sua casa a Mogadiscio era al centro del fuoco incrociato tra l’esercito e Al-Shabaab.

    La maggior parte dei migranti forzati che vengono in Europa proviene da Paesi in guerra come la Somalia, l’Iraq o l’Afghanistan. Altri fuggono dalla violenza indiscriminata e da gravi violazioni dei diritti umani perpetrarti in Paesi come l’Eritrea o il Sudan. O sono stati vittime di gravi violazioni dei loro diritti economici, sociali e culturali, come i rom in Serbia.

    Qual è la risposta dell’Unione europea alle loro tragedie?

    La Commissione e gli Stati membri stanno facendo ogni sforzo per organizzare una stretta cooperazione con i Paesi di origine o di transito. In particolare è dal governo turco che ci si attende che tenga lontani i rifugiati dall’Europa a tutti i costi. La Grecia, per esempio, attualmente sta considerando la Turchia un ‘Paese terzo sicuro’ e tenta di rimandare indiscriminatamente tutti i migranti, compresi i richiedenti asilo, dai suoi confini verso la Turchia.

    A prima vista le autorità greche hanno il diritto di farlo. Il “regolamento di Dublino” dell’UE permette agli Stati membri di fare un elenco di “Paesi terzi sicuri” dove le persone bisognose di protezione dovrebbero presentare domanda di asilo. E la Commissione europea ha esplicitamente invitato gli Stati membri a inserire la Turchia in tale elenco. Ma se si guarda meglio, sorgono molti dubbi circa la legittimità di una siffatta misura.

    La pietra angolare del sistema internazionale di protezione dei rifugiati è il principio di non respingimento. Questo principio vieta il trasferimento di chiunque in qualsiasi modo verso qualsiasi luogo in cui sarebbe a rischio reale di gravi violazioni dei diritti umani. È stato sancito nella Convenzione sui rifugiati del 1951 e in numerosi strumenti internazionali sui diritti umani. La violazione di questo principio può verificarsi in una varietà di modi, tra cui direttamente attraverso rimpatri forzati verso il Paese di origine, o attraverso un trasferimento in un luogo in cui la persona rischia il respingimento.

    La Turchia può essere considerata ‘sicura’ per i rifugiati?

    Amnesty International ha recentemente pubblicato un’“azione urgente” riguardo il caso di un giovane siriano, M.K., fuggito dalla Siria nel dicembre 2012 e andato in Giordania. Nel novembre 2015 ha deciso di andare in Turchia, dove pensava che le sue sorelle orfane che vivono in Siria sarebbero state in grado di raggiungerlo. Egli è stato arrestato al momento dell’arrivo in aeroporto di Istanbul il 9 novembre 2015. Le autorità turche hanno tentato di rimandarlo in Giordania il giorno seguente, ma M.K. ha dichiarato di voler chiedere asilo in Turchia. M.K. è stato portato in una stanza dell’aeroporto nella quale si trova tuttora, detenuto in uno spazio senza luce naturale e in cui le luci artificiali sono sempre accese. Gli è negata l’assistenza medica di cui ha bisogno. Essere tenuto rinchiuso in uno spazio così per un lungo periodo di tempo (in questo caso dal 9 novembre 2015) costituisce un trattamento crudele, inumano e degradante.

    Può uno Stato in cui si verificano tali gravi violazioni dei diritti umani, e del principio di non respingimento, essere considerato come ‘sicuro’ per i rifugiati? Certo che no. L’Unione europea e i suoi Stati membri rischiano di tradire i propri valori fondamentali e le proprie norme. Ci sono alternative a queste politiche. I leader europei devono decidere di aprire percorsi più legali e sicuri per i migranti forzati. Ci sono proposte concrete sul tavolo; nel mese di novembre 2014, diverse organizzazioni d’ispirazione religiosa hanno pubblicato un documento politico congiunto sui percorsi sicuri e legali per la protezione in Europa. A tali misure dovrebbe essere data la massima priorità. Allora l’Unione europea vivrebbe in coerenza con le proprie norme e valori.

    (fonte: Europeinfos #192; traduzione italiana a cura di Eurcom)


    L’Ue et le “portier” turc

    Selon Eurostat, il y a au total 1,3 million de personnes qui ont demandé une protection internationale dans les 28 Etats membres de l’Union européenne en 2015. Parmi elles se trouve un jeune Somalienne que le Service Jésuite des Réfugiés (JRS) a rencontrée en Italie.

    Yasmin a 19 ans et elle a dû s’enfuir de chez elle, en Somalie, pour éviter les avances importunes d’un membre du groupe terroriste Al-Shabaab. Il n’était pas possible de dire “non”. Elle raconte : “Quelqu’un d’Al-Shabaab voulait épouser une amie à moi et son père a dit “non”. Le père et la fille ont été tués”. La fuite a été particulièrement difficile pour Yasmin, qui a été gravement estropiée des jambes il y a deux ans, lorsque sa maison de Mogadiscio a été prise dans des échanges de tirs entre l’armée et Al-Shabaab.

    La majorité des migrants forcés qui viennent en Europe sont originaires de pays ravagés par la guerre tels que la Somalie, l’Irak ou l’Afghanistan. D’autres fuient la violence systématique et les graves violations des droits de l’homme dans des pays comme l’Erythrée ou le Soudan. D’autres encore ont été victimes de graves violations de leurs droits économiques, sociaux et culturels comme les Roms de Serbie.

    Quelle est la réponse de l’Union européenne à leurs tragédies ?

    La Commission et les Etats membres font le maximum pour organiser une coopération étroite avec les pays d’origine ou les pays de transit. Le plus en vue, c’est le gouvernement turc, dont on attend qu’il empêche à tout prix les réfugiés de gagner l’Europe. C’est ainsi que la Grèce considère actuellement la Turquie comme un “pays tiers sûr” et s’efforce d’y faire retourner sans distinction tous les migrants à ses frontières, y compris ceux à la recherche de protection.

    A première vue, les autorités grecques ont le droit de le faire. Le Règlement européen de Dublin permet aux Etats membres de désigner des listes de “pays tiers sûrs” où les personnes ayant besoin de protection doivent faire une demande d’asile. Et la Commission européenne a explicitement invité les Etats membres à inscrire la Turquie sur cette liste. Mais à la réflexion, la légalité d’une telle mesure suscite de nombreux doutes.

    En effet, la pierre angulaire du système international de protection des réfugiés est le principe du non-refoulement. Ce principe interdit de transférer quiconque, de quelque manière que ce soit, vers un lieu où la personne est exposée à des risques réels de graves violations des droits de l’homme. Le principe a été codifié dans la Convention de 1951 sur les réfugiés ainsi que dans de nombreux instruments internationaux traitant des droits de l’homme. Ce principe peut être enfreint de diverses façons, notamment directement en forçant la personne à retourner dans son pays d’origine, ou en la transférant dans un lieu où elle risque d’être refoulée plus loin.

    La Turquie peut-elle être considérées comme un pays “sûr” pour les réfugiés ?

    Amnesty International a récemment publié une “Action urgente” concernant le cas d’un jeune Syrien : M.K. s’est enfui de Syrie en décembre 2012 et s’est rendu en Jordanie. En novembre 2015, il a décidé d’aller en Turquie car il pensait que ses soeurs orphelines qui vivaient en Syrie auraient peut-être la possibilité de l’y rejoindre. Il a été arrêté à son arrivée à l’aéroport d’Istanbul le 9 novembre 2015. Les autorités turques ont essayé de le renvoyer en Jordanie le lendemain, mais M.K. a indiqué qu’il souhaitait demander asile en Turquie. M.K. a alors été conduit dans une pièce de l’aéroport où il se trouve toujours.

    M.K. est détenu dans un endroit privé de lumière naturelle, où des lumières artificielles sont allumées en permanence. On lui refuse semble-t-il l’aide médicale dont il a besoin. Le fait d’être emprisonné dans un tel endroit pendant une longue période (dans ce cas, depuis le 9 novembre 2015) peut être qualifié de traitement cruel, inhumain ou dégradant.

    Un Etat où se produisent d’aussi graves violations des droits de l’homme, y compris du principe de non-refoulement, peut-il vraiment être considéré comme un pays “sûr” pour les réfugiés ? Certainement pas. L’Union européenne et ses Etats membres courent le danger de trahir les valeurs et les normes fondamentales qui sont les leurs. Il existe des alternatives à ces politiques. Les dirigeants européens ont besoin d’envisager de mettre en place davantage d’itinéraires sûrs et légaux pour les migrants forcés. Des propositions concrètes ont été déposées en la matière ; en novembre 2014, plusieurs organisations confessionnelles ont publié des Orientations politiques communes concernant des voies sûres et légales permettant la protection en Europe. Ces mesures devraient devenir prioritaires. L’Union européenne serait ainsi en accord avec ses propres normes et valeurs.

    (source: Europeinfos #192)


    Eu und die Türkei „Torwächter“

    Eurostat zufolge haben im Jahr 2015 insgesamt 1,3 Millionen Personen internationalen Schutz in den 28 EU-Mitgliedstaaten beantragt. Eine von ihnen, ein Mädchen aus Somalia, hat der Jesuiten-Flüchtlingsdienst (JRS) in Italien getroffen.

    Yasmin ist 19 Jahre alt und musste aus ihrer Heimat in Somalia fliehen, um unerwünschten Annäherungsversuchen durch ein Mitglied der Terrorgruppe Al-Shabaab zu entgehen. Ein Nein wäre nicht akzeptiert worden. „Ein Mitglied der Al-Shabaab-Miliz“, so berichtete sie, „wollte eine meiner Freundinnen heiraten, und ihr Vater lehnte dies ab. Sowohl der Vater als auch die Tochter wurden ermordet.“ Für Yasmin, deren Beine zwei Jahre zuvor verstümmelt worden waren, als ihr Haus in Mogadischu ins Kreuzfeuer zwischen der Armee und Al-Shabaab geraten war, erwies sich die Flucht als ganz besonders mühsam.

    Die meisten der nach Europa einreisenden unfreiwilligen Migranten stammen aus kriegsgebeutelten Ländern wie Somalia, dem Irak oder Afghanistan. Andere fliehen vor willkürlicher Gewalt und schweren Menschenrechtsverletzungen in Ländern wie Eritrea oder dem Sudan. Für wiederum andere, beispielsweise die Roma in Serbien, sind Verletzungen ihrer wirtschaftlichen, sozialen und kulturellen Rechte die Ursache ihrer Flucht.

    Was tut die Europäische Union angesichts all dieser Tragödien?

    Die Kommission und die Mitgliedstaaten bemühen sich intensiv um eine enge Zusammenarbeit mit den Herkunfts- oder Transitstaaten. Dabei wird in erster Linie von der türkischen Regierung erwartet, Flüchtlinge mit allen Mitteln von Europa fernzuhalten. Griechenland beispielsweise betrachtet derzeit die Türkei als einen „sicheren Drittstaat“ und versucht, unterschiedslos alle Migranten, einschließlich der Schutzsuchenden, von seinen Grenzen in die Türkei zurückzuschicken.

    Auf den ersten Blick haben die griechischen Behörden das Recht dazu. Die „Dublin-Verordnung” erlaubt es den EU-Mitgliedstaaten, Listen „sicherer Drittstaaten”, in denen schutzbedürftige Menschen Asyl beantragen sollten, aufzustellen; und die Europäische Kommission hat explizit ihre Mitgliedstaaten aufgefordert, die Türkei auf solch eine Liste zu setzen. Auf den zweiten Blick kommen aber doch viele Zweifel hinsichtlich der Rechtmäßigkeit einer derartigen Maßnahme auf.

    Der Grundpfeiler des internationalen Schutzsystems für Flüchtlinge ist das Prinzip der Nichtzurückweisung, das jegliche Überführung eines Flüchtlings in ein Land, in dem ihm schwere Menschenrechtsverletzungen drohen können, untersagt. Dieser Grundsatz ist in der Genfer Flüchtlingskonvention aus dem Jahr 1951 sowie in zahlreichen internationalen Menschenrechtsinstrumenten festgeschrieben worden. Er kann auf unterschiedliche Weise verletzt werden – direkt durch Abschiebung in den Herkunftsstaat oder indirekt durch den Transfer in ein Land, in dem der betroffenen Person die Zurückweisung droht.

    Ist die Türkei ein für Flüchtlinge „sicheres” Land?

    Amnesty International hat vor kurzem eine „Urgent Action” (Eilaktion) gestartet, um das Leben eines jungen Syrers zu schützen: M. K. floh im Dezember 2012 von Syrien nach Jordanien. Im November 2015 entschied er sich dazu, in die Türkei zu reisen, da er dachte, dass er dort seine verwaisten Schwestern, die noch in Syrien leben, nachholen könnte. Er wurde am 9. November 2015 bei seiner Ankunft am Flughafen von Istanbul festgenommen und inhaftiert. Am nächsten Tag versuchten die türkischen Behörden, ihn zurück nach Jordanien abzuschieben; M. K. erklärte jedoch, er wolle in der Türkei Asyl beantragen. Er wurde daraufhin in einen Raum im Flughafen gebracht, in dem er seitdem festgehalten wird.

    In dem Raum, in dem M. K. inhaftiert ist, gibt es kein Tageslicht, nur künstliches Licht, das permanent angeschaltet ist. Eine erforderliche medizinische Versorgung scheint ihm verweigert zu werden. Für einen längeren Zeitraum (in diesem Fall seit dem 9. November 2015) in einer solchen Einrichtung festgehalten zu werden, stellt eine grausame, unmenschliche und erniedrigende Behandlung dar.

    Kann man einen Staat, in dem auf derart gravierende Weise gegen Menschenrechte, so auch gegen das Nichtzurückweisungsprinzip, verstoßen wird, wirklich als „sicher“ für Flüchtlinge einstufen? Wohl eher nicht. Die Europäische Union und ihre Mitgliedstaaten laufen Gefahr, ihre eigenen Grundwerte und Normen zu verraten. Doch es gibt Alternativen zur gegenwärtig praktizierten Politik. So sollten sich die führenden Politiker Europas Gedanken über die Öffnung legaler und sicherer Routen für unfreiwillige Migranten machen. Es liegen bereits konkrete Vorschläge dazu vor; im November 2014 veröffentlichten mehrere kirchliche Organisationen ein gemeinsames Positionspapier zu sicheren und legalen Einreisewegen in die EU. Die darin empfohlenen Maßnahmen sollten höchste Priorität genießen. Dann würde die Europäische Union ihren eigenen Standards und Werten gerecht werden.

    (quelle: Europeinfos #192)

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      Stefan Kessler

      Policy Officer for the Jesuit Refugee Service Germany

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